Le
cicale e la trebbiatrice
Giugno
1930. Il sole mattutino già riscalda ogni cosa.
Dalla terra lentamente le larve delle cicale vengono fuori.
Con le deboli zampette si arrampicano al tronco del primo albero
che trovano.
Scelgono il posticino più idoneo al completamento della loro metamorfosi.
Il sole che sale sull'orizzonte le aiuta.
Qualche giorno e le larve divengono dei perfetti insetti.
Il calore del sole meridiano invita la femmina a cicalare per ore
sino al tramonto.
Con spregiudicatezza vado per le campagne adiacenti le costruzioni
abitative, oggi non più gaudenti di aria sana, alla ricerca di catturare
quelle più canterine, nel ritenere che continuino a cantare anche
dopo la loro cattura.
Il tempo del sol leone si avvicina.
I giorni di vita assegnati a quegli insetti cicalanti sta per scadere.
Devono tornare nella terra: è la Legge della natura.
Intanto il grano, a quel tempo molto seminato, giunge a maturazione.
Le spighe colme di chicchi dorati chinano la lesta sull'alto stelo.
Il falciatore affila il suo arnese.
Sudando per la intensa calura, falciando, confeziona i ricchi covoni.
Nella grande masseria, l'aia è ben pulita.
I contadini apprestano tutto quanto occorre per sgranare le spighe.
I quadrupedi attendono legati al palo. I covoni vengono aperti e
le spighe sparse con cura sull'aia.
Inizia l'estenuante girotondo delle bestie, che con gli zoccoli
le disgregano.
Prima che il sole volga all'occaso termina il girotondo.
Gli addetti si danno da fare a radunare al centro dell'aia il contenuto
delle spighe allontanando la paglia.
I braccianti, accertata la direzione del vento, con pale di legno
lanciano in alto il misto di grano e pula.
Il grano ricade nel posto mentre la pula viene allontanata dal vento.
Tutto questo avviene tra l'assordante cicalare dell'insetto canterino.
In Noicàttaro, dove le aie sono già scomparse, a sera inoltrata,
sento uno strano segnale di vaporiera del tempo insieme a un assordante
rumore di ferraglie stridenti, costituenti un grande apparato di
legno e ferro: la trebbiatrice.
Per i ragazzi è una esplosione di gioia; allo stesso tempo attiva
la curiosità per i tanti aggeggi che ha: una fornace con del fuoco,
sbuffi di vapore che vengono fuori da ogni parte, stantuffo che
va avanti ed indietro sbuffando vapore e tante altre particolarità
che no so descrivere.
Si dirige per Via Incoronata per raggiungere lo spazio idoneo all'espletamento
del suo intervento.
Ogni produttore di grano ha portato e accatastato i propri covoni.
Il mattino successivo, portata alla giusta pressione la vaporiera,
tutto il complesso, mediante cinghie di trasmissione entra in funzione.
Un uomo si posiziona al di sopra dell'apparecchiatura, aspetta che
un altro gli passi un covone da immettere nella apposita botola,
e così di seguito.
Il grano viene raccolto in appositi sacchi, mentre la paglia e la
pula allontanata meccanicamente, viene raccolta da altri operai
che la inseriscono in un apposito attrezzo, che la comprime facendone
la cosiddetta balla di paglia tenuta stretta da due file di filo
di ferro.
Quando durante il pranzo la vaporiera segnala, con il suo fischio,
che si è ripreso il lavoro, lascio tutto e mi reco dove opera.
Noto un gran trambusto di rumori e vociare degli addetti, ma è il
cicalare dell'insetto, che la fa da padrone su tutto.
L'addio manzioniano è il mio intimo richiamo a quanto visto.
Mentre Lucia e Renzo nella parola "addio" sperano di tornare a rivedere
i descritti luoghi, per me, invece, come sono scomparsi gli oggetti
del racconto, così nell'apprestarmi a passare a miglior vita, spero,
solo, nella misericordia di Dio.
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